Sport e Coaching
Prendo spunto da un’esperienza diretta per spiegarti esattamente a che cosa mi riferisco quando ti parlo di coaching.
Tra i vari appuntamenti sportivi dei miei ultimi 10 anni di carriera, io e la mia compagna abbiamo lottato in maglia Azzurra per qualificarci alle olimpiadi di Londra 2012, sfiorando il nostro sogno più grande.
Ricordo quel torneo, la finale della World Cup a Mosca, ultima tappa utile per qualificarci, come una delle più belle esperienze sportive di sempre. Eravamo davvero focalizzate, centrate verso l’obiettivo, determinate e unite, e abbiamo espresso un ottimo beach volley. Fino al momento in cui le cose hanno iniziato a non funzionare.
E, ovviamente, quel momento è arrivato nella partita decisiva per la nostra qualificazione. Avevamo giocato alla grande ogni gara di quel torneo, sapendo che se avessimo fallito, sarebbe finito tutto: ogni partita era la partita più importante, la pressione altissima, la posta in palio davvero preziosa, la qualità di ogni azione una continua ricerca di eccellenza ed efficacia.
Ti è mai capitato di iniziare a giocare bene, di essere nel mood giusto, ogni cosa procede alla perfezione … poi accade qualcosa e tutto cambia…
Il campo diventa più piccolo, il muro avversario sembra insormontabile, il tuo colpo forte sembra non venirti più con quella naturale facilità… e la tua sicurezza inizia a vacillare… all’avversario risulta semplice fare il punto mentre tu per realizzarne uno devi fare appello a tantissima energia. Ecco: io mi sono trovata esattamente in quella condizione.
Tecnicamente mi sentivo preparata, avevo lavorato tanto e su ogni dettaglio; tatticamente la partita era pronta perché sia noi che lo staff avevamo dati molto precisi sulle due giocatrici olandesi (ottimo team) e sapevamo esattamente cosa fare; fisicamente ero in forma e anche qui venivo da un programma dettagliato di lavoro… allora, che cosa non ha funzionato?
In questo ipotetico triangolo della prestazione ottimale i primi due lati conosciuti da tutti sono composti dalla parte tecnico-tattica e dalla parte fisica. Il terzo lato è quel fattore “invisibile” che rappresenta, appunto, la parte mentale.
Che cosa significa? Una buona descrizione la diede, nel 1974, Tim Gallwey, pioniere del coaching e inventore dell’ inner game. Tim pubblica il libro “The inner game of tennis”, nel quale identifica che, parallelamente al gioco che si svolge esternamente sul campo, ne esiste uno ancora più importante che si svolge nella mente dell’atleta.
“L’avversario che esiste nella nostra mente è molto più forte di quello che esiste nella realtà, al di là della rete”, Tim Gallwey
In base a come giochi il gioco interiore, influenzi in maniera efficace e importante il gioco esteriore, indipendentemente dalle abilità e dalle potenzialità che hai come atleta.
“Perché non metto giù la palla?” “Cosa è cambiato?” “Non riesco a vedere il campo!”, “Leggono bene i miei colpi” “Loro sono rientrate in partita”…
Questi sono alcuni degli esempi di frasi evidentemente depotenzianti che stavano girando all’impazzata nella mia mente in quel momento. E io non ne avevo il controllo. Da lì, a catena, nervosismo, incertezza, lo scollamento con la compagna…
Attenzione: mi ero anche preparata ad avere l’atteggiamento giusto, avevo esperienza, avevo letto tanto su come approcciare in modo ottimale la gara sempre in modo autonomo. Ma non avevo consapevolezza delle mie strategie, non avevo un piano mentale per affrontare l’imprevisto.
È un po’ come leggere la spiegazione di come fare lo squat e poi andarlo a fare in palestra con il preparatore. C’è una notevole differenza, non credi?
E una “dinamica” semplice come questa può costare una qualificazione olimpica.
Fu proprio l’elaborazione di questo episodio che mi spinse a dedicarmi profondamente allo studio degli aspetti mentali che possono fare una differenza drastica nella vita di ogni sportivo professionista.