L’allenatore vice campione olimpico si rende disponibile ad un’analisi di alcune delle dinamiche che si è trovato o si trova ad affrontare con il Team azzurro e non solo. Preziose considerazioni che possono ispirare ogni allenatore nel suo meraviglioso percorso educativo.
Buona lettura!
Flessibilità, rispetto delle regole, cambiamento: la fase che stiamo attraversando è dura, ma può essere educativa, cosa ne pensi?
Questa è una fase in cui dobbiamo accettare l’idea del cambiamento e dell’adattamento quotidiano ad uno scenario che muta continuamente.
Quando vado nelle aziende a parlare di gestione del gruppo, di mentalità, di massimizzazione dell’efficienza delle persone parliamo di quanto sia difficile cambiare e modificare delle abitudini.
Porto sempre l’esempio del fumatore o della persona in sovrappeso. Il cambiamento è molto spesso legato ad esperienze (anche traumatiche) forti: il fumatore afferma di aver provato a smettere di fumare ma non ci è mai riuscito perché è difficile, perché non riesce a farne a meno. Ad un certo punto sta male, si spaventa, e dal giorno dopo non fuma più. E lì capisce che non era vero che non era possibile cambiare (nel coaching la maggior parte dei cambiamenti avvengono in un istante, le chiamiamo esperienze emozionali correttive) e lo stesso vale per il sovrappeso. Ci sono delle situazioni che ti mettono di fronte ad un’unica possibilità e tu pur di non perdere tutto accetti quella possibilità anche se è scomoda, difficile e complicata.
Questa (del Coronavirus) è una situazione da vivere così. C’è chi dice che può essere una opportunità per essere migliori: se due mesi fa ci avessero detto “Stai in casa per 20 giorni / 1 mese senza muoverti” avremmo risposto “Tu sei pazzo!”, invece lo dobbiamo fare e lo stiamo facendo. Di fatto è un piccolo trauma, è una richiesta, quasi un’imposizione, in sostanza ci chiedono di cambiare le abitudini.
È una sfida!
Noi sportivi siamo abituati a vivere di sfide e rappresentiamo un esempio in questo senso, perché questa è a tutti gli effetti una sfida. Spesso incontriamo avversari che sulla carta sono più forti di noi eppure andiamo in campo pensando che se facciamo tutto perfetto come abbiamo pensato e allenato, se ci crediamo ecc, ce la giochiamo, abbiamo delle possibilità di vincere anche contro un avversario che sulla carta è molto più forte di noi. Questo è quello che a noi sortivi accade costantemente: la sfida non è sfida se non si lotta fino all’ultimo pallone, se non me la gioco fino alla fine.
Vincere il Coronavirus sarà far cadere l’ultima palla il prima possibile perché vorrà dire che avremo giocato al massimo, facendo le cose al meglio
Chi viene dall’ambiente sportivo è allenato a rispettare le regole, lo sportivo è abituato ad avere un allenatore che ti dice “Ora facciamo cosi per il bene del team” e lo sportivo lo fa. Cosa che chi non è di questo ambiente probabilmente soffre di più o fa più fatica a fare.
Certo, lo sport in sé ha dei regolamenti: non puoi decidere di giocare 5 partite in una settimana poi stare fermo un mese e andare in vacanza. Tu sai che hai x partite da fare preparandoti in un certo modo, e se pensi di aver bisogno di due giorni in più per prepararti meglio per una partita considerata più importante… beh non li hai e quindi devi ottimizzare quel tempo lì, devi stare nella regola del gioco.
Lo sport in questo ci rende più abituati a vivere un contesto di rispetto delle regole.
Quando pedagogicamente parliamo di quanto sia importante lo sport per i bambini e per i ragazzi da un punto di vista educativo, ne parliamo in questo senso: differenziamo gli sport di squadra rispetto quelli individuali perché educativamente gli sport di squadra ti abituano a prenderti un impegno nei confronti anche dei tuoi compagni e non solo delle tue prestazioni.
Lo sport in generale abitua i ragazzi che ci sono delle regole che vanno rispettate nei confronti del gioco che stai facendo e nei confronti del tuo avversario. In questo lo sport è magico.
A proposito di resistenza al cambiamento, che strategie utilizzi con i tuoi giocatori?
La strategia secondo me più efficace – più che nella gestione della resistenza nel tentativo di indurre il cambiamento -, è quella di interagire facendo innescare un meccanismo che è quello per cui ciò che tu vorresti che il giocatore (o la squadra) facesse, è una cosa che a lui (o alla squadra) conviene. Quindi non la fa perché tu glielo chiedi, ma perché gli porta dei vantaggi. In questo modo il “problema” da tuo diventa suo, diventa loro.
Questo meccanismo è facilmente esemplificabile con la frase “Allenati così altrimenti stai in panchina”. Un esempio di questo tipo ti fa passare da un problema che ha l’allenatore perché il giocatore non si allena bene, ad una responsabilità che dai al tuo atleta.
Invece di dirgli “ti devi allenare bene perché allenarsi bene significa migliorare, perché bisogna alzare il livello, perché l’avversario è forte…” (frasi poco efficaci) è meglio dargli un feedback su quello che succede se lui non fa quello.
Ovviamente ad alto livello ci sono situazioni diverse da questo esempio. Juantorena, Giannelli, Zaytsev sanno che la loro qualità rispetto all’alternativa è garanzia che tu li utilizzerai fino a quando saranno in grado di offrire la loro qualità. Ci sono delle volte in cui ce la mettono tutta e non ci riescono, ed è evidente che succede, ma succede per altri motivi.
Ecco con loro bisogna cercare altre leve. Anche senza dirlo direttamente ma facendolo capire – il comportamento è più importante delle parole – si comunica che così facendo si va verso quella cosa che ti è sconveniente.
Il meccanismo deve essere quello di far diventare una cosa che tu vuoi una cosa che loro vogliono perché gli conviene. A quel punto lì lo fanno loro, non sei tu che devi continuamente chiedere.
Che è quello che sta succedendo a noi in questo momento: sappiamo che se usciamo di casa rallentiamo l’uscita da questa pandemia, e quindi non ci conviene perché vogliamo smettere di vedere gente ammalarsi, gente perdere la vita, vogliamo smettere di essere limitati nella nostra libertà e di non poter decidere dove andare… quindi ci conviene fare così. Lo facciamo perché capiamo che ci conviene.
Pallavolo femminile e pallavolo maschile, quali le diversità?
Ho allenato tanti anni fa un gruppo femminile under 18 ed è un’esperienza dalla quale non rifuggo, anzi perché sono curioso e la curiosità è la base dell’aggiornamento e della crescita. Sono andato molto vicino ad allenare un Top Club femminile che in quegli anni stava vincendo tanto, tanti anni fa, ma ho fatto una scelta differente perché avevo iniziato un percorso e volevo portarlo avanti per vedere dove mi avrebbe portato.
Le differenze ci sono e sono tante, ma io credo che le differenze su cui concentrarci debbano essere più dal punto di vista tecnico che gestionale.
Io credo molto nelle persone, aldilà del sesso, dell’età, della provenienza. Così come c’è la donna fragile, con un carattere forte c’è l’uomo permaloso, insicuro, forte caratterialmente, egocentrico, umile… la connotazione degli aspetti caratteriali che determina la scelta che tu fai nella gestione individuale dell’atleta è personale.
Ci sono altre cose che differenziamo la pallavolo maschile da quella femminile, come il calcio maschile da quello femminile e sono dettagli che vanno tenuti presente per la metodologia dell’allenamento.
Se io domani dovessi allenare una squadra femminile mi confronterei e parlerei molto con allenatori che hanno specificità metodologica, sul campo, sui sistemi di gioco. Guardo molto la pallavolo femminile e ci sono delle cose che costantemente utilizzo come spunto per capire che delle volte anche noi nel maschile diamo per scontato delle cose che non si possono fare solo perché ci è comodo pensare ad esempio: “La palla ha una potenza nettamente superiore a quella delle donne quindi non possiamo difendere”.
Ci sono dei palloni molto forti nella pallavolo femminile che le donne difendono, e che alla stessa potenza noi uomini non difendiamo. Come è possibile?
Oppure ci fermiamo al fatto che se non muriamo o almeno tocchiamo la palla sembra quasi che con un avversario che attacca non si possa avere possibilità di break. Però ci sono anche palloni gestibili, quindi significa che mentalmente non sei predisposto come lo sono le donne ad avere delle opportunità di attacco dopo difesa e pensi di averle solo se il muro tocca o se il muro direttamente fa un vincente.
A livello comunicativo che cosa deve fare un allenatore per risultare efficace? Cosa funziona e cosa no?
Secondo me il fulcro che riguarda la comunicazione e non solo, ruota intorno il concetto di fiducia. La gestione ruota intorno al concetto di fiducia… che detta così sembra semplice, ma in realtà non lo è.
La fiducia è una somma di cose, noi parliamo di gestione delle persone come se fosse un semplice studio delle personalità e dello schema di come agire su un permaloso, o un insicuro, o un presuntuoso, ma in realtà scegliere il COME e il QUANDO comunicare hanno senso quando c’è fiducia. Se non c’è fiducia tu puoi aver azzeccato perfettamente il profilo della personalità del tuo atleta o del tuo presidente, puoi aver azzeccato il momento in cui parlargli, ma se non c’è fiducia non ha riscontro con i risultati che vuoi ottenere con quella comunicazione.
La fiducia non è una cosa semplice “Fidati di me vedrai che andrà così”, è la somma di questioni che riguardano la professionalità, ovvero quanto la persona con cui stai parlando di quell’argomento ti riconosce competente e conoscitore di quella materia, quanto ti reputa onesto intellettualmente e quanto ti reputa coerente ovvero come giudica il tuo comportamento non rispetto a sé, ma ad altre situazioni verso l’esterno. Come ti vede interagire con gli altri compagni di squadra, come ti vede interagire con un giornalista quando la squadra non c’è, come ti vede interagire con un dirigente rispetto lo stesso argomento. Se tu dici ad un giocatore “Guarda questa cosa è così”, e poi sente che quando c’è il dirigente tu non la dici così perché hai paura… ecco, questo agisce nella sfera della fiducia.
Se non la rispetti non riuscirai a raggiungere l’obiettivo che ti poni prima di parlare.
Il quando si collega agli aspetti della personalità del giocatore che ho di fronte. Ad esempio se di fronte ho il giocatore che ha una forte personalità e che – per riuscire a scatenare delle reazioni positive in lui – è un giocatore da sfidare, il momento più adatto per farlo è il momento critico, perché lì la sfida è doppia, in quanto è instabile emotivamente e se tu lo provochi ottieni la miglior condizione per realizzare un risultato.
In partita ti trovi ad avere frazioni di secondo in cui devi decidere che strategia attuare con il giocatore.
Il giocatore insicuro invece nel momento critico va assecondato, va lasciato passare. Con lui va innescato prima un meccanismo di fiducia in sé, di autostima, per poi andare a parlare di cose che vuoi fargli cambiare. Però non puoi parlarne in un momento in cui già si sente l’ultimo degli ultimi, perché diventa devastante e difficilmente recuperabile. Lo stesso vale per la squadra.
Un allenatore deve prendere continuamente decisioni. Come gestisci il time out?
È chiaro che delle volte abbiamo pochissimo tempo per interpretare la situazione, ci sono dei time out che decidiamo di fare sbraitando perché pensiamo che in quel momento la squadra abbia bisogno di una reazione, anche se all’interno della squadra ci sarà qualcuno che lo percepirà meno, qualcuno di più… è una coperta corta che non è mai perfettamente aderente a quella che è l’esigenza di ognuno e per la quale devi scegliere la priorità
Oppure facciamo dei time out in cui devi passare della calma e la cosa importante diventa non tanto quello che dici, ma il tono con cui lo dici. A livello internazionale diventa sempre più difficile farlo perché ci sono queste musiche ad altissimo volume e anche quando vuoi trasferire calma devi gridare perché sei ad un metro e non ti sentono. Ma sappiamo che se gridi dicendogli di stare calmo passi per pazzo!
Però l’idea è quella: se devo passare calma devo comunicare in modo calmo.
Quando la squadra mi sembra sia spaventata, o rigida, o bloccata perché non è ancora riuscita a rompere il ghiaccio devi comportarti di conseguenza. E sono frazioni di secondo in cui c’è da prendere la miglior decisione.
Fare l’allenatore è per certi versi stressante…
Quando parliamo di stress lo facciamo in due ambiti.
Il primo riguarda lo stress che giunge dalla responsabilità che hai di dover decidere senza sapere se quella decisone sarà la più giusta (anche se ti consulti con persone di cui ti fidi).
Il secondo deriva dal dover prima interpretare tu quello che vuoi passare e di cui la squadra ha bisogno. In realtà se dovessimo dare un nome a questo secondo ambito il nome sarebbe “non poter mai essere sé stessi, ma essere quello che penso serva in quel momento alle persone con cui ho a che fare”.
Se io sono una bestia e vedo che la squadra è agitata e quindi devo passare calma, genero a me stesso una “violenza” che ha degli effetti collaterali internamente (che siano ulcere, capelli bianchi, herpes che saltano fuori… ).
È un costante mettersi a disposizione di ciò che serve nonostante quello che istintivamente sento e che non posso esprimere. E non posso farmi beccare! Perché loro non devono accorgersene.
Cosa fai come allenatore per aiutarti a gestire lo stress? Come ti prepari alla partita?
Personalmente la cosa che mi dà riposo rispetto lo stress è sapere di aver fatto tutto quello che avevo preventivato di fare in termini di preparazione.
Non mi riferisco alla maglietta, il calzino … (alla scaramanzia), mi riferisco ad aver terminato di preparare la seduta video, e se l’ho già fatta ancora meglio, perché finchè non l’ho fatta comunque devo gestire anche quella performance. Non puoi andare in sala video confuso o preoccupato nel far vedere la bravura dell’avversario, perché anche quello è un momento decisivo, insieme al discorso in spogliatoio e ai time out che sono le tre tappe del percorso di un allenatore.
Insomma, aver sistemato tutto quello che era programmato di far fare alla squadra fino all’inizio della partita.
Prima delle partite ad esempio, vado a nascondermi, ma non perché sono agitato, ma perché mi devo preparare a parlare con la squadra prima di entrare nello spogliatoio, mi preparo dal punto di vista emotivo al discorso che devo fare. Per questo mi isolo, perché se mi sto preparando a trasmettere aggressività, non posso distrarmi parlando con altre persone, è troppo importante riuscire ad essere concentrato.
È esattamente il processo che segue un atleta che si prepara con la sua routine ad essere pronto.
Certo. Poi con gli anni e l’esperienza le partite si vivono in modo diverso, perché quando hai vissuto un tot di situazioni di altissima rilevanza ti abitui a gestire quei momenti, conosci meglio i dettagli di quell’area.
Quindi: ho preparato le cose e ho parlato alla squadra… e già quando ho finito di fare questo mi sento: Aaah! Ho fatto tutto.
Chiaro è che se ci siamo allenati bene sono più tranquillo, se invece veniamo da una settimana disastrosa bisogna vedere se la squadra riesce comunque ad offrire una prestazione importante.
Nella pratica durante i tornei quando ho finito di lavorare mi affido a un film o a una serie tv, perché con i libri mi distraggo, divago troppo, e poi durante il giorno cerco di trovare il tempo per dell’attività sportiva mia personale, ho bisogno di stancarmi fisicamente.
Anche l’allenatore deve trovare delle valvole di sfogo per veicolare la sua energia
Sì, anche perché in partita continua ad adattarsi a quello che vede e fa correre pensieri su cosa fare, cosa fare, cosa fare, cosa fare.
Come supporti un atleta insicuro? Un atleta che all’improvviso perde delle certezze o ha fatto delle prestazioni al di sotto delle sue potenzialità?
In questo la comunicazione è importante soprattutto nelle tempistiche. Anche un momento di difficoltà l atleta ha degli alti e dei bassi, e quindi bisogna scegliere un momento un pò più “alto” e magari fare in modo che (stiamo parlando di equilibrismi) sia lui che venga a parlare con te.
Quello già è un qualcosa che ti mette avanti nel dargli fiducia perché sai che il tuo atleta ha preso consapevolezza. Il giocatore è consapevole della sua difficoltà, viene a chiederti aiuto, ed è pronto a riceverlo, facendo già un passo verso una possibile risoluzione.
Avviene in tutte le situazioni, se uno ne prende coscienza e le accetta, ha più possibilità di risolverle. Se uno fa finta che non esistano, che dipendano da altri e che lui non può fare nulla, la possibilità di risolverla è molto bassa, anzi, spesso ci si rifiuta nascondendosi dietro questi alibi.
Quindi credo che la prima cosa sia trovare un escamotage per fare in modo che la persona scelga di venire a parlarti, e a quel punto puoi essere più efficace nel cercare di aiutarlo.
Come? Sicuramente parlando di punti forti però se l’idea non è solo quella di farlo uscire da una situazione di difficoltà ma è quella di renderlo più forte per entrarci il meno possibile, seppur in un momento di difficoltà scelgo di parlargli di cose in cui non è bravo e di come fare a migliorarle. Questo esprime un senso di fiducia alla persona che penserà:
“Se mi parla anche di una cosa che non faccio bene proprio ora che entrambi stiamo dibattendo sulla mia difficoltà significa che non dubita nemmeno un attimo del fatto che io ne possa uscire”.
Sono messaggi sottili e importantissimi.
Grazie davvero a Chicco per gli innumerevoli spunti.
In attesa della seconda parte dell’intervista ti invito a condividere l’articolo e a commentarlo con le tue impressioni.
Buon lavoro,
Giulia Momoli Mental Coach