“Hai una battuta orrenda”;
“Giochi perché non ho nessun’altro da mettere”;
“Non sai stare in campo”;
“Ogni palla che prendi è un errore”.
Queste alcune frasi dette durante una sola partita ad una giocatrice giovane. Non è mio ruolo giudicare le modalità comunicative di un allenatore, ma commentarle per una sensibilizzazione pubblica è un dovere.
Quando sento un’atleta che fa una fatica pazzesca a tenere su la testa perché, oltre la sfida richiesta dalla performance deve cercare di non sentirsi “umiliata” dal proprio allenatore, allora qualche domanda me la faccio. Io ristrutturo, cerco di comprendere, le fornisco supporto per non lasciarsi condizionare da questi metodi comunicativi… ma ragazzi alcuni di voi sono indifendibili!!!
Vi sembra giusto parlare in questo modo ad una ragazza adolescente? Vi sembra giusto andare sul personale? Che modo è?!?!
Questi messaggi squalificano l’atleta e la persona.
Non ottengono una reazione.
Non ottengono niente di buono.
E – tecnicamente – questi sono feedback generici che non portano alcun valore aggiunto, non stimolano miglioramento, non indirizzano al cambiamento.
Anzi: influiscono negativamente sull’autostima dell’atleta causando paura, senso di impotenza, paralisi, conflittualità e depressione.
I feedback, anche se negativi, per poter lavorare sull’autoefficacia e sull’apprendimento della giocatrice vanno dati in modo specifico: metto in luce il comportamento e fornisco la correzione, oppure il “Come avresti potuto fare qui?”
Dai, su.