Come si approcciano le competizioni importanti? Come si accompagna la squadra?
Noi allenatori secondo me – e lo dico anche per la parte tecnica – non dovremmo pensare agli esercizi. Non è questa la discriminante maggiore nel differenziare chi è più competente da chi è meno competente. Secondo me la discriminante maggiore anche nella parte tecnica, è: l’allenatore più bravo è colui che identifica qual è la priorità che la squadra ha o deve avere per giocare meglio. Perché tante cose, se non giochi bene, non funzionano benissimo, però tu devi capire qual è il motivo principale, quello che ti permette subito, migliorato, di fare un gradino in avanti. Se tu sbagli il motivo, sbagli l’analisi e sbagli anche la medicina probabilmente.
E vale anche rispetto il giocatore individuale. Se il mio atleta schiaccia fuori non è sufficiente che io gli faccia fare un esercizio di attacco affinchè diminuisca la possibilità che lui attacchi fuori. La differenza la fa non che tipo di esercizio io gli faccio fare, ma l’individuare che cosa gli fa commette quell’errore: la colpisce male? Sceglie un colpo che non è adatto? È fuori tempo? Sbaglia la rincorsa? Non accelera la rincorsa? Non accorcia l’ultimo passo perché la palla è un po’ staccata?
Ci sono una serie di cose che possono determinare un errore. La decisione di quale è il motivo principale, quindi la diagnosi, è fondamentale per decidere come curare che è poi l’esercizio. Quindi per questo dico non concentratevi sull’esercizio ma concentratevi sulla vostra abilità nel trovare dove sta il problema di fronte ad una situazione che non funziona.
Lo stesso vale per come accompagno la squadra ad una partita difficile, ad un torneo importante. Dipende da quale diagnosi faccio: vedo una squadra che non ha fiducia? Devo lavorare molto su quello. Vedo una squadra che è presuntuosa? Devo metterli sotto stress durante gli allenamenti, generando delle situazioni in cui loro non riescono a raggiungere gli obiettivi che io gli metto, e grazie alle quali magari si rendono più facilmente conto del fatto che non è tutto oro quello che luccica e che c’è ancora della strada da fare prima di potersi considerare pronti a un torneo così difficile, ad una partita così importante, o a un play off. Noi allenatori dobbiamo continuamente dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte.
Come fai a responsabilizzare un giocatore per fare in modo che sia lui il primo allenatore di sé stesso?
Sicuramente scegliendo degli obiettivi idonei sia rispetto alla squadra che rispetto al singolo e al proprio procedere nel cercare di migliorarsi, nel cercare di fare carriera, e nell’andare avanti. Bisogna stare attenti a non mettere obiettivi troppo facili altrimenti non sono stimolanti, ma allo stesso tempo è necessario anche evitare di metterli troppo grandi perché il rischio è quello di far incappare l’atleta nella frustrazione che è una zavorra che a volte fa rinunciare. Quando, come allenatore, sbagli e poni un obiettivo troppo piccolo, puoi correggere il tiro, ma se tu porti il tuo giocatore a vivere un periodo di frustrazione per avergli dato un obiettivo troppo grande, oramai diventa difficile ridimensionarlo.
Nel coaching una caratteristica che deve avere un obiettivo per essere correttamente formulato è proprio essere il giusto mix tra motivante e fattibile.
Quindi bisogna essere equilibrati – che è diverso da mediocri – nel dare obiettivi difficili ma fattibili, per me questa è la chiave. Devi fare una gran fatica, ma ci puoi arrivare. Lo vediamo ad esempio nello scegliere gli esercizi a punteggio che proponiamo alla squadra: se succede una volta che interrompo l’allenamento senza aver raggiunto l’obiettivo, ok, posso fare anche mea culpa e dire ”Ok ragazzi, vi siete allenati bene, ho sbagliato io”, ma se succede più spesso i casi sono due: o li sotterri, o comunque metti a repentaglio la fiducia che hanno rispetto la tua professionalità.
Questo andrebbe considerato anche con i giovani: cominciare a dire a dei bambini che giocano di sognare la nazionale (allenatore o genitore), è un macigno che rischia di rovinarli.
Hai dei mentori? In che modo sono stati per te dei punti di riferimento?
Cerco di spizzicare un po’ da tutti sono molto curioso, cerco di approfondire persone che centrano poco con il mio specifico, andando a capire la loro storia. Sono uno da biografie, da film, documentari, libri, sono reduce nell’approfondimento di Maradona. Jobs è un altro dei personaggi nel quale ho cercato di curiosare. In generale amo le biografie di allenatori di calcio, di basket. Non li studio come fossero dei libri tecnici, ma magari in 100 pagine trovo un approccio, uno spunto, una frase che possono tornarmi utili.
L’esperienza che reputo più importante della mia carriera è stata la collaborazione durata 5 anni con Julio Velasco e il nostro successivo restare in contatto anche a livello personale. Con lui ho assorbito davvero molti aspetti che riguardano il prendere decisioni, ti direi tutto ciò che riguarda la logica, nel senso della capacità di sommare gli elementi per trarne le conclusioni. La logica è questo: io ho un tot di elementi, li metto insieme con un ordine e poi giungo ad una conclusione. E non faccio il contrario, ovvero parto da una convinzione poi cerco elementi che me la confermino… perché questa non è logica, ma è voglio andare dove voglio io.
Allenare seguendo la logica è importante: cerco di mettere insieme le impressioni che ho con le informazioni che ho, ne faccio un processo e giungo ad una conclusione che sia il più attendibile possibile rispetto quello che conosco. E lì credo di andare verso la decisione che rispetto le condizioni che ho e che sono in grado di fare risulta più sensata. L’esperienza con Julio è stata un’esperienza di crescita anche da questo punto di vista… ma sono tutte cose che non si raccontano, non ne parlavamo nel vero senso della parola come fossero delle lezioni, sono abilità che si assorbono quando fai un cammino con una persona, un’ influenza che tocca il tuo atteggiamento e diventa una condivisione molto fitta. È nato quando vivevamo di persona in simbiosi nel club e resta fino ad oggi quando ci si vede quando si può.
Quali sono secondo te 3 caratteristiche a livello mentale ed emozionale che un allenatore dovrebbe studiare, coltivare, apprendere?
1. Grande personalità perché bisogna decidere: puoi aver consultato anche la lampada di Aladino ma alla fine la decisione la devi prendere tu, quindi ci vuole carattere, ci vuole personalità. Non bisogna pensare cosa succede se la decisione a cui sono arrivato poi va male, bisogna avere la capacità di mettere insieme tutti gli elementi di cui parlavo prima e prendere una decisione. Molto spesso abbiamo anche poco tempo per farlo, e avendo poco tempo, è fondamentale avere carattere per prendere una decisione sapendo che poi la responsabilità è la tua.
2. Molta disponibilità perché devi adattarti alla personalità dei tuoi atleti per renderli efficienti, ai bisogni della squadra nel capire cosa fare nei momenti di difficoltà o quali sono i momenti in cui va stimolata, ecc Questo richiede molta duttilità e da allenatore non puoi dire “Sono così e basta, se mi vogliono mi prendono così“. Secondo me così si dura poco e non mi riferisco al tema dell’esonero, mi riferisco al fatto che probabilmente un allenatore che la pensa così rischia di avere un percorso professionale costellato da problematiche professionali e che non vanno d’accordo con il ricercare l’efficienza della squadra.
3. Avere una buona dose di autostima, perché ci sono tanti momenti nel percorso – anche quando si finisce con dei successi – che necessitano di tanta autostima. Anche in una partita che tu vinci 3 a 0, sicuramente un momento di difficoltà ce lo hai avuto. Probabilmente piccolo e per meno tempo rispetto la partita che perdi, ma c’è. Quindi la capacità di essere sicuri di sé, avere autostima, insistere su delle scelte che hai fatto, decidere di cambiare idea senza aver paura che pensino che non hai le idee chiare… questo fa tutto parte dell’avere una stima di sé solida, che non vuol dire essere presuntuosi.
Anche perché devi reggere agli urti, alle pressioni, alle aspettative…e più sei in alto più sei esposto al giudizio.
E questo rientra ancora nel discorso della pressione… prima del Mondiale in casa la pressione c’era, ma a me la pressione piace perché – diciamo le cose come sono – se io faccio una cosa e non ho pressione, significa che la cosa è poco importante e quindi se faccio una cosa dove ho molta pressione, significa che è una cosa importante. La pressione è bella e accompagna qualcosa di significativo che tu stai facendo.
Noi sogniamo di aumentare l’ambizione.
Come si gestisce il momento del successo? Cosa cambia dopo una medaglia così importante?
La cosa che mi inorgoglisce di più di tutti i complimenti che ho ricevuto è quella quando mi dicono che rispetto a prima della medaglia d’argento di Rio 2016 non sono cambiato. Secondo me si gestisce naturalmente, quello che ho cercato di fare è di non trattare diversamente nessuno, ad esempio continuando a rispondere a tutti quelli che mi scrivevano su facebook… ti faccio questo esempio perché per me è stata una questione personale, ci tenevo : è stato durissimo, ho finito a dicembre di rispondere a tutti i messaggi, ma ho voluto farlo! Mia moglie scherzando mi diceva “Fagli gli auguri di Natale già che ci sei” ?
Continuo a cercare di essere disponibile con tutti, per quello che riesco. Anche adesso in questo momento che stiamo vivendo, sto cercando di contribuire.
E per gli atleti? Come si impedisce che si montino la testa?
Io credo che se arrivi in Nazionale, a vincere una medaglia d’argento, o se arrivi a vincere uno Scudetto, o una Champions League, sai che domani puoi perdere, perché hai perso altre volte prima di vincere e hai visto chi ha vinto quella volta, perdere. Nel senso: non arrivi a giocarti quei momenti se non hai questo molto chiaro, non arrivi. Può succedere ad un ragazzo che a 16/17 anni si trova proiettato in alto, o che è all’inizio della sua vita esperienziale dal punto sportivo e che subito vince. Allora è diverso, perché lui ancora non sa… non è passato attraverso esperienze dove pur essendo il più forte ha perso, o ha visto il più forte perdere e altri vincere. Ma se ti manca quella cosa non arrivi a 25/30 ad avere la possibilità di giocartela. I giocatori non solo fanno da soli, ma sono lì a giocarsi quell’opportunità proprio perché già lo fanno.
L’insegnamento che esprimono queste tue parole è che questa mentalità vada coltivata nel tempo.
Ti dico questo, a me un grande giocatore tanti anni fa ha insegnato una cosa senza saperlo (perché lui non lo sa). Dopo una bruttissima sconfitta mi ha detto una frase molto importante.
Dopo la sconfitta avevo fatto dei colloqui individuali con chi era più in difficoltà o con chi poteva essere più decisivo nel ripristinare l’andamento delle cose, insomma ci sono diverse strategie che tu scegli, e in uno di questi colloqui individuali il giocatore mi ha detto: “Perché dobbiamo parlare?”
In quel momento ero seduto davanti a lui e ha aggiunto “Io oggi non mi sento più scarso di ieri, così come non mi sento più forte il giorno dopo una grande vittoria o dopo uno scudetto.“
E questo credo sia fondamentale perché riguarda l’autostima, riguarda non montarsi la testa, riguarda la differenza tra chi ha grande autostima e non è presuntuoso.
Saper riconoscere il proprio valore a prescindere dal risultato
Esattamente, anche negativo, che è la parte difficile. E questa mentalità ti rassicura immediatamente al fatto che se oggi pomeriggio ci fosse da andare in campo, questo atleta ci andrebbe con la stessa convinzione di poter vincere che aveva prima di aver perso quella partita importante. Che è la cosa che implicitamente un allenatore desidera rigenerare nel suo giocatore dopo la sconfitta, insieme alla fiducia. Con un giocatore così sai anche che in una situazione contraria, ovvero dopo una vittoria importante, lui non si sentirà mai appagato.
Gli ho risposto “Siamo a posto così, chiama un altro”.
Mi auguro che questa intervista ti abbia lasciato ulteriori spunti di riflessione. Grazie a Chicco, un Grande allenatore della nostra pallavolo che si è messo a disposizione.
Trovi la prima parte dell’intervista qui. Se l’intervista ti è piaciuta, sentiti libero di condividerla.
Giulia